L’abbraccio dell’amore

Luca è un bambino bellissimo. Non lo dico perché sono sua madre. Lo è davvero.

Ha un viso dolcissimo: le lentiggini sul nasino perfetto, gli occhi profondi e verdi come il mare in tempesta, la bocca rossa come il sangue ed i capelli mossi, perennemente spettinati, di un biondo rossiccio. Tuttavia, per i suoi cinque anni, non è molto alto ed è certamente troppo magro. D’altronde è difficile far mangiare un bambino che se non ha il risotto giallo che gli fa sua nonna, i suoi formaggini rotondi e le carote crude non mangia altro; e come se non bastasse, per far capire che non è disposto ad assaggiare altro cibo si butta per terra ed urla; urla in un modo che ancora oggi non riesco ad accettare.

È stato difatti due anni e mezzo fa che mi accorsi che Luca aveva qualcosa di strano, di diverso rispetto agli altri bimbi. Quando mi decisi a parlarne con mio marito, lui mi abbracciò stretta e mi disse con un groppo in gola: “Sì amore, lo so. Ho già preso appuntamento con il neurologo.”

Mio marito Giulio è un medico e come tale si è reso conto molto prima di me che Luca, verso i due anni e mezzo, iniziava a mostrare segni di regressione, dei blocchi, non tanto motori, quanto emotivi e di linguaggio.

Eravamo al suo parco giochi preferito la prima volta che accadde: tutto ad un tratto, di punto in bianco, Luca si fermò sul primo scalino dello scivolo. I bambini che volevano salire si accodarono dietro di lui, protestando. Io lo chiamai, ma lui non si voltò. Mi alzai dalla panchina dove stavo chiacchierando con altre mamme e gli andai accanto: “Amore, cosa c’è?” Nemmeno si girò. Era come se non mi riconoscesse, come se non esistessi. Lo presi in braccio e lui neanche mi mise le braccia attorno al collo. Mi spaventai molto. Dopo qualche minuto però, Luca si mise a piangere e appoggiò la sua testolina sulla mia spalla; le braccia lasciate a penzoloni lungo il corpo.

Questo fu solo l’inizio; da lì, tutto si stravolse, le nostre certezze caddero, la nostra vita mutò irrimediabilmente. Nessuno di noi, né io né mio marito fummo più abbracciati da Luca ed iniziammo insieme a lui quel calvario destinato ai bambini autistici ed ai rispettivi genitori.

Visite su visite; momenti di disperazione alternati a barlumi di speranza che si demolivano in pochi istanti; richieste di aiuto a parenti, ad amici, alle associazioni di volontariato; inizi di terapie poi interrotte per cominciarne altre che speravamo più efficaci; l’angoscia nel cuore.

Fu un caso quando ci imbattemmo in Angus, un Cane di San Bernardo enorme con gli occhi più teneri che io abbia mai visto e con un pelo bicolore stupendo: passeggiava a fianco del suo padrone al parco, dove io e Giulio avevamo portato Luca quella domenica mattina. Mio figlio ha sempre amato il verde, le piante, gli uccelli, le foglie e questo aspetto non mutò nonostante la malattia: sembrava che la natura lo calmasse. Così lo portavamo al parco ogni volta che non pioveva.

Quel giorno di gennaio faceva molto freddo e la neve, caduta nei giorni precedenti, creava un paesaggio spettrale.

Luca pedalava un po’ faticosamente sulla sua bicicletta a tre ruote e noi, comunque, lo seguivamo camminando. Nel momento in cui adocchiammo in lontananza quell’ammasso di pelo che ci veniva incontro, ci preoccupammo per l’effetto che avrebbe potuto avere su Luca, il quale, se qualcosa o qualcuno non gli piaceva, cominciava a dondolarsi avanti e indietro fino a disperarsi nelle sue solite e terrificanti urla. Mio maritò cominciò a parlare a Luca dicendogli dolcemente di fermarsi per lasciar passare il cagnone che stava arrivando. A pochi metri dall’incontro però, Giulio si sentì chiamare: il padrone del San Bernardo era niente meno che un infermiere arrivato da poco nel reparto dove mio marito operava. Vedendo che Luca si era fermato ma non mostrava segni di disagio, Giulio cominciò a chiacchierare con l’infermiere. Facemmo le presentazioni. Poi il giovane infermiere, che si accorse rapidamente della nostra particolare situazione, guardò Angus e allentò il guinzaglio. Il cane, alto circa un metro, sovrastava Luca seduto sulla bicicletta. Luca era come ipnotizzato da lui. In maniera quasi impercettibile e mentre noi continuavamo a discorrere lì vicino, Angus gli si avvicinò. Non so dire come precisamente si svolse l’azione. Ad un certo punto, l’infermiere che stava parlando della casa in cui si era appena trasferito, si bloccò e sorrise guardando di fronte a lui, rivolto verso Luca. Sia io che mio marito, che eravamo di lato, ci voltammo e ciò che vedemmo ancora oggi mi commuove e lo considero un miracolo: Angus si era seduto accanto a mio figlio, il quale aveva appoggiato la sua testolina sul muso del cane e gli stringeva le braccia attorno al collo.

Credo che un uomo fatichi a capire sino in fondo come un animale possa comunicare con noi, su quale frequenza si riesca a sintonizzare per arrivare ad aprire quei cassetti chiusi delle emozioni più felici e più vere che albergano nelle nostre profondità.

Angus, fin dal primo incontro, ha trovato degli spazi in Luca che nessuna terapia era mai riuscita a trovare. Da allora, due volte alla settimana (e a volte anche di più), assisto a questo legame speciale che Angus ha stabilito con mio figlio: è un dialogo ad un livello superiore del linguaggio, basato sulle coccole, sul rispetto, sulla forza interiore, sull’amore incondizionato che un cane sa trasmettere, che Angus trasmette a mio figlio e che mio figlio vuole ricambiare. È uno scambio che non credevo possibile. Un miracolo che scalda il cuore.

Grazie ad Angus, Luca ha fatto molti progressi ed il suo stato d’ansia si è talmente ridotto che le sue urla, che mi hanno così tanto paralizzata e annientata dentro, ora sono rare e meno stridule. Ed è sempre grazie ad Angus se, dopo due anni di zooterapia, mio figlio, di tanto in tanto, mi abbraccia ancora.

© Marcella Manca in “Premio Letterario Dentro l’Amore. Antologia” II Edizione –A cura di Stefania Convalle – Demian Edizioni – 2° Classificata